I MILLE PERCHÉ - OTTICA - LA FOTOGRAFIA

PERCHÉ LA MACCHINA FOTOGRAFICA HA L'OBIETTIVO?

Parlando del microscopio e del cannocchiale abbiamo visto che cos'è e a che cosa serve il sistema di lenti noto con il nome di obbiettivo. Esso, pur comportandosi come una lente d'ingrandimento ideale, è in realtà un complesso sistema di lenti sovrapposte, tale da fornire immagini perfette, esenti da qualsiasi aberrazione. La macchina fotografica è costituita schematicamente da un obbiettivo applicato ad una camera oscura. Come funziona una macchina fotografica? Dovendo fotografare un oggetto ci si pone ad una certa distanza da esso, registrandola sulla macchina in modo che l'obbiettivo, opportunamente distanziato dall'oggetto e dalla pellicola posta nell'interno della camera oscura, possa proiettare un'immagine nitida.
Data una perfetta esposizione luminosa dell'oggetto, che si ottiene rapportando il tempo d'apertura dell'obbiettivo con la quantità di luce emessa dall'oggetto, si «scatta» la foto.
Premendo un apposito bottone l'obbiettivo si apre, la luce vi penetra attraverso e l'immagine si stampa, piccola e capovolta, sulla pellicola fotosensibile. Non appena ha fatto entrare una quantità di luce sufficiente perché l'immagine abbia impressionato la pellicola, l'obbiettivo si richiude (in realtà è un diaframma metallico che si apre e si chiude mettendo in contatto o isolando l'obbiettivo con la camera oscura) perché un'ulteriore entrata di raggi luminosi impressionerebbe a tal punto la pellicola che noi otterremmo una foto totalmente bianca.
L'obbiettivo è dunque una delle parti più importanti della macchina fotografica. Esso deve essere di «grande apertura» per consentire la presa di fotografie con brevissima esposizione (istantanee) e deve inoltre essere esente da qualsiasi difetto che possa provocare immagini distorte o sfumate ai contorni.
Schemi di macchine fotografiche

Modello tridimensionale di macchina fotografica d’epoca

Modello tridimensionale di reflex con obiettivo 1:2 focale 50 mm

PERCHÉ LA PELLICOLA FOTOGRAFICA S'IMPRESSIONA ALLA LUCE?

Abbiamo visto come nella macchina fotografica, grazie all'obbiettivo e al diaframma metallico che permette l'ingresso di una quantità di luce opportunamente controllata, venga impressionata una pellicola fotosensibile immersa nel buio della camera oscura.
L'oggetto che noi vogliamo fotografare getta attraverso l'obbiettivo le sue ombre e le sue luci, in tutte le loro sfumature, che impressionano la pellicola riproducendo l'immagine dell'oggetto.
Come è fatta una pellicola fotografica, per poter essere fotosensibile?
La pellicola fotografica è formata da un supporto (di vetro se è una «lastra» o di celluloide se è una vera e propria pellicola) su cui viene spalmata un'emulsione a base di bromuro d'argento. Dapprima viene preparato il supporto, procedendo in varie lavorazioni dalla cellulosa: questa, trattata con acidi, solventi e sostanze plastificanti, dà origine ad un impasto «collodio» che viene filtrato e colato su un nastro metallico continuo avvolto su due tamburi in lento movimento.
Evaporato il solvente, che viene recuperato per le successive lavorazioni, il collodio acquista consistenza assumendo la forma di una sottile pellicola che viene distaccata dal nastro, essiccata facendola passare su cilindri riscaldati o in essiccatori a camera e quindi avvolta in grandi bobine. Quindi si passa a preparare l'emulsione.
Si parte, per questa lavorazione, da residui di pelli fresche, specialmente bovine, e da ossa che vengono trattate a lungo in soluzioni d'idrato di calcio per eliminare grassi e peli; da ciò si estrae la cosiddetta «gelatina» fotografica alla quale si aggiungono nitrato di argento, bromuro di potassio e molte altre sostanze organiche sintetiche che valorizzano la sensibilizzazione cromatica e aiutano il regolare stendimento dell'emulsione sul supporto.
Questo complesso impasto forma, dunque, l'emulsione fotografica che viene gelificata e conservata in strati in frigorifero.
Per applicare l'emulsione al supporto, si mette la prima in una vasca allo stato liquido e la si fa lambire dal supporto che se ne riveste di uno strato di spessore uniforme.
Questo strato viene fissato sul supporto mediante un brusco raffreddamento. A tutto ciò segue, infine, l'essiccamento, il taglio nel formato desiderato, l'eventuale perforazione se si tratta di una pellicola cinematografica e la confezione in rotolini, gli stessi che noi acquistiamo dal fotografo. Nella pellicola così trattata la funzione fondamentale spetta ai sali d'argento, sensibilissimi alla luce. I raggi luminosi provenienti dall'oggetto che stiamo fotografando, producono una trasformazione nei sali d'argento, oggi ancora non del tutto nota. Sulla pellicola si formano dei granuli di bromuro d'argento dalla consistenza variabile in rapporto al maggiore o minore intervento della luce.
Si ha così nella pellicola impressionata in modo invisibile l'immagine dell'oggetto fotografato che il successivo sviluppo farà diventare visibile grazie ad un trattamento chimico che determina la scissione del sale di argento e la precipitazione dell'argento nero visibile.
Segue infine un trattamento di fissaggio che stabilizza l'immagine e la rende inalterabile alla luce e quindi durevole.
L'immagine così ottenuta è però «negativa» e cioè presenta zone scure là dove, nell'oggetto fotografato, le stesse sono chiare e luminose.
Dal negativo si ricava l'immagine positiva, riproducente fedelmente l'oggetto, impressionando con la luce, tramite la negativa, una speciale carta fotosensibile, resa tale da un'emulsione simile a quella della pellicola, ma più semplice.
Ciò può esser fatto ponendo in contatto la negativa con la carta (stampa a contatto) oppure grazie a degli ingranditori che utilizzano per la proiezione degli obbiettivi (stampa a ingrandimento). La carta, così impressionata, viene sottoposta agli stessi processi di sviluppo e di fissaggio della negativa che, finalmente, rendono definitiva e inalterabile l'immagine dell'oggetto che abbiamo fotografato.
Modello tridimensionale di rullini fotografici per stampa tradizionale a colori su carta

PERCHÉ POSSIAMO FARE FOTO A COLORI?

Fin dai primordi della fotografia furono fatti tentativi per poter ottenere fotografie di oggetti nei loro colori naturali, partendo dal principio che tutti i colori si possono ottenere dalla opportuna mescolanza dei tre colori fondamentali: il blu, il verde e il rosso.
Dai primi esperimenti sulla «tricromia» compiuti da Maxwell, Cross e Ducos du Houron (1869) e soprattutto grazie alla loro applicazione pratica dovuta a L. Lumière (1914) si è giunti ai perfezionati processi attuali.
Oggi si possono ottenere diapositive o fotografie a colori pressoché perfette.
Com'è fatta una pellicola capace di darci foto a colori?
Sopra il supporto trasparente è distesa l'emulsione fotosensibile in tre strati sovrapposti. Tra il primo e il secondo vi è un sottilissimo strato giallo privo di emulsione. Quando la luce, proveniente dall'obiettivo, colpisce il primo strato quello superiore, che è sensibile ai raggi blu, lo attraversa lasciandovi i raggi blu grazie allo strato giallo sottostante che ne impedisce il passaggio. Giunta al secondo strato, sensibile ai raggi verdi, ve li deposita e raggiunge, ormai in possesso delle sole radiazioni rosse, l'ultimo strato sensibile ai raggi rossi.
L'immagine invisibile dell'oggetto si forma così nei tre strati di emulsione ripartendosi tra di essi a seconda dei colori che presenta il soggetto. Nel successivo processo di stampa queste tre immagini si fondono e grazie alla fusione dei tre colori fondamentali si ottiene la foto dell'oggetto nei suoi colori naturali.